Gli impianti ed i servizi condominiali devono essere perfettamente funzionali e fruibili da tutti i condomini

Cassazione civile, sez. II, 12 novembre 2012, n. 19616

Gli impianti ed i servizi in un condominio per essere perfettamente funzionali, ovvero essere idonei allo scopo cui sono destinati, devono assicurare, alle stesse condizioni, la stessa prestazione, ovvero, la stessa utilità a tutti i condomini.
Non è pensabile che un condomino possa o debba assumersi l’onere, ben poco conta se impegnativo o sopportabile, di effettuare uno o più interventi per rendere perfettamente funzionale un impianto condominiale, soprattutto, quando esistono tecniche che consentono di escludere, per la loro funzionalità, definitivamente la necessità di un intervento umano.
Nella specie, la Corte ha cassato la decisione dei giudici del merito che avevano concluso per la perfetta funzionalità dell’impianto di riscaldamento condominiale, anche se il CTU aveva accertato che nei radiatori dell’appartamento del condomino ricorrente, sito al piano attico, a causa della tipologia dell’impianto si accumulava una notevole quantità di gas che impediva la circolazione dell’acqua calda, e che per aversi un perfetto funzionamento era necessario sfiatare i radiatori ovvero intervenire manualmente sui radiatori per procedere allo spurgo del gas che si formava.

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L’ente proprietario o gestore della strada risponde ex art. 2051 c.c. per i danni subiti dagli utenti. Sintesi delle evoluzioni giurisprudenziali.

Cassazione civile, sez. III, 6 novembre 2012, n. 19154

Nel corso dell’ultimo decennio una delle questioni più controverse in giurisprudenza riguardava la responsabilità della PA per i danni subiti dall’utente conseguenti all’utilizzo di beni demaniali e, segnatamente, per quelli conseguenti ad omessa od insufficiente manutenzione di strade pubbliche.
Si è sostenuto nelle pronunce più risalenti nel tempo che la PA, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, trovasse solo i limiti derivanti dall’art. 2043 c.c., per cui la vigilanza e il controllo sui beni di sua attribuzione comportava solo il dovere di evitare che i beni in questione non arrecassero danni ad altri secondo il dettato generale del noto principio fondamentale del neminem laedere.
In concreto quindi la PA, in base a questa concezione restrittiva, poteva nel suo richiamato potere discrezionale di vigilanza e controllo dei beni demaniali limitarsi ad evitare che detti beni costituissero per l’utente un pericolo occulto, cioè (come definito dalla giurisprudenza) non visibile e non prevedibile, che desse luogo al cosiddetto trabocchetto o insidia.
Pur tuttavia già con la sentenza n. 488 del 2003 (originata da un evento di danno verificatosi su un’autostrada, ma contenente enunciazioni di principi riferibili ad ogni tipo di bene), la terza sezione della Suprema Corte ha enunciato i seguenti principi:

  • La ratio della possibile esclusione della responsabilità a titolo di custodia è fondata, non sulla demanialità del bene, ma sulla impossibilità di evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo nella cosa, in quanto soggetta all’uso diretto da parte di un rilevantissimo numero di utenti ed in quanto particolarmente estesa, tanto da rendere impossibile l’esercizio di un controllo adeguato: quando invece è consentita un’attività di vigilanza che valga ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo per i terzi, l’art. 2051 c.c. trova senz’altro applicazione anche nei confronti della pubblica amministrazione.
  • Per le situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura della cosa, l’uso generalizzato e l’estensione della res costituiscono dati in via generale irrilevanti in ordine al concreto atteggiarsi della responsabilità del custode.

L’evoluzione giurisprudenziale degli anni successivi è culminata nell’affermazione di Cass. civ. 25 luglio 2008 n. 20427 (seguita da ultimo da Cass. 3 aprile 2009 n. 8157), secondo la quale va superato l’assunto per cui l’art. 2051 c.c. è applicabile nei confronti della P.A. per le categorie di beni demaniali quali le strade pubbliche, solamente quando, per le ridotte dimensioni, ne sia possibile un efficace controllo ed una costante vigilanza da parte della P.A., tale da impedire l’insorgenza di cause di pericolo per gli utenti (Cfr. Cass. Civ. 6 luglio 2006, n. 15383).

Si è, quindi, affermato il diverso principio secondo il quale:
«La responsabilità da cosa in custodia presuppone che il soggetto, al quale la si imputa, abbia, con la cosa, un rapporto definibile come di custodia; e perché questo rapporto ci sia è necessario che il soggetto abbia (e sia in grado di esplicare riguardo alla cosa) un potere di sorveglianza, il potere di modificarne lo stato e quello di escludere che altri vi apporti modifiche».
Si è ulteriormente precisato che per le strade aperte al traffico, è certo che l’ente proprietario (o il concessionario) si trova in una situazione che lo pone in grado di sorvegliarle, di modificarne le condizioni di fruibilità, di escludere che altri vi apporti cambiamenti, situazione che, a ben vedere, integra proprio lo status di custode.
In particolare, una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia della strada stessa (e l’onere probatorio di tale dimostrazione grava sul danneggiato), è comunque configurabile la responsabilità dell’ente pubblico custode, salvo che questo ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno.
L’ente proprietario (o concessionario) non può far nulla quando la situazione che provoca il danno si determina, non come conseguenza di un precedente difetto di diligenza nella sorveglianza della strada, ma in maniera improvvisa, atteso che solo questa ultima – al pari della eventuale colpa esclusiva dello stesso danneggiato in ordine al verificarsi del fatto – integra il caso fortuito previsto dall’art. 2051 c.c. quale scriminante della responsabilità del custode.
Concludendo, in sintesi, per costante giurisprudenza si è affermato che:
agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito, in linea generale, è applicabile l’art. 2051 c.c. in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura od alle pertinenze della strada, essendo peraltro configurabile il caso fortuito in relazione a quelle provocate dagli stessi utenti, ovvero da una repentina e non specificamente prevedibile alterazione dello stato della cosa che, nonostante l’attività di controllo e la diligenza impiegata allo scopo di garantire un intervento tempestivo, non possa essere rimossa o segnalata, per difetto del tempo strettamente necessario a provvedere (Cass. Civ. 3 aprile 2009 n. 8157; Cass.Civ. 29 marzo 2007 n. 7763; Cass. Civ. 2 febbraio 2007 n. 2308).
É stato a tal proposito ulteriormente specificato in Cassazione Civile, sez. III, 3 aprile 2009, n. 8157, che, ai fini del giudizio sulla qualificazione della prevedibilità o meno della repentina alterazione dello stato della cosa, occorre avere riguardo, segnatamente per quanto concerne i pericoli derivanti da situazioni strutturali e dalle caratteristiche della cosa, al tipo di pericolosità che ha provocato l’evento di danno e che può atteggiarsi diversamente, ove si tratti di una strada, in relazione ai caratteri specifici di ciascun tratto ed agli analoghi eventi che lo abbiano in precedenza interessato (ad esempio non può essere invocata l’imprevedibilità a fronte di una frana se il tratto di strada dove accade è stato interessato in precedenza da altri movimenti franosi, ancorché di minori dimensioni).

Allo stato dell’evoluzione giurisprudenziale può quindi affermarsi che:
«Una volta accertato che il fatto dannoso si è verificato a causa di una anomalia del manto stradale di una struttura viaria, strada o piazza che sia, è comunque configurabile la responsabilità dell’ente pubblico che ne è custode, salvo che quest’ultimo non dimostri di non avere potuto far nulla per evitare il danno.
Il caso fortuito idoneo ad escludere la responsabilità può essere rappresentato anche dal fatto del danneggiato, avente un’efficacia causale idonea a interrompere il nesso eziologico tra cosa ed evento dannoso.
Il giudizio sull’incidenza del comportamento del danneggiato nella produzione del danno non può prescindere dalla considerazione della natura della cosa e deve tener conto delle modalità che in concreto ne hanno caratterizzano la fruizione».
Assodato, dunque, che la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. è esclusa solamente dal caso fortuito – che è qualificazione incidente sul nesso causale e non sull’elemento psicologico dell’illecito (confr. Cass. civ. 7 luglio 2010, n. 16029; Cass. civ. 19 febbraio 2008, n. 4279) – in relazione a talune fattispecie può essere necessario stabilire se l’evento derivi in tutto o in parte dal comportamento dello stesso danneggiato.
Ne consegue che corollario della regola sancita dall’art. 2051 cod. civ. è quella dettata dall’art. 1227 comma 1, c.c.
Bisogna quindi valutare l’eventuale concorso colposo dello stesso danneggiato in quanto rileva la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, la quale prevede la riduzione del risarcimento secondo l’entità della colpa del danneggiato medesimo, sempre fatta salva l’ipotesi in cui il fatto di questi si ponga come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, tale da interrompe il nesso di causalità.
La diligenza del comportamento dell’utente del bene demaniale, e segnatamente della strada demaniale, va valutata anche in relazione all’affidamento che era ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale, con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo. Di conseguenza, la diligenza che è richiesta al danneggiato nell’uso del bene demaniale, sarà diversa a seconda che si tratti di una strada campestre o del corso principale della città, pur facendo capo entrambe allo stesso demanio stradale dello stesso Comune, proprio perché il danneggiato fa affidamento su una diversa attività di controllo-custodia (che quindi ritiene esigibile) in relazione ai due tipi di strada dello stesso demanio.

Non è ammissibile ex art. 246 cpc la testimonianza della persona danneggiata in un sinistro stradale nel giudizio promosso da altro soggetto danneggiato.

Cassazione civile, sez. III, 14 febbraio 2013, n. 3642

La vittima di un sinistro stradale non può essere sentita come testimone nel giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altro soggetto danneggiato nel medesimo sinistro, e ciò ai sensi dell’art. 246 c.p.c. per cui “Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio”.
A nulla rileva la circostanza che il testimone abbia dichiarato di essere stato risarcito dalla compagnia assicuratrice o di rinunciare al risarcimento, né che il relativo credito si sia prescritto (cfr. Cass. Civ. n. 16541/2012), il che non fa venir meno la sua incapacità a testimoniare.
Il danneggiato è, in quanto tale, titolare di un interesse giuridico, personale, concreto e attuale che legittima la sua partecipazione al giudizio avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da altra persona danneggiata in conseguenza del medesimo sinistro.